mercoledì 27 giugno 2012


La funzione dei racconti «immodificabili» è proprio questa: contro ogni nostro desiderio di cambiare il destino, ci fanno toccar con mano l’impossibilità di cambiarlo. E così facendo, qualsiasi vicenda raccontino, raccontano anche la nostra, e per questo li leggiamo e li amiamo. Della loro severa lezione «repressiva» abbiamo bisogno. La narrativa ipertestuale ci può educare alla libertà e alla creatività. È bene, ma non è tutto. I racconti «già fatti» ci insegnano anche a morire.
Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente.
U. Eco

sabato 28 aprile 2012


“Questa cosa dei libri proprio non ce l’ho!”. La donna in carriera che mi siede accanto nel volo Catania-Roma mi ha visto estrarre dal borsello tre tascabili, soppesarli con una certa indecisione, alla fine sceglierne uno. Mi fissa per qualche secondo, come se venissi da Urano. Segue un breve scambio di battute. La informo che parte del mio lavoro consiste nel recensire libri. “Ah, io questa cosa dei libri proprio non ce l’ho!”. Questa cosa dei libri. Che cosa sarà mai, nella sua ottica, questa “cosa dei libri”? Una malattia, una mania, una fissazione, una perdita di tempo, un’attività inutile, un surrogato di qualcosa di più divertente a cui il lettore non può accedere? Ma chi è, per lei, il lettore? Un perditempo, uno sfigato, un fallito, un originale, un eversivo, uno senza amici, uno snob privo di senso pratico e, già che ci siamo, pure scarsamente virile? Ignoro quale patologia riconosca in me la non-lettrice, che poi aggiunge: “Mi sono bastati tutti quei libri che ho dovuto studiare a scuola…”.
Ah, ecco. Sono le stesse parole che mi sentivo ripetere ai tempi del liceo, quando, già irrimediabilmente contaminato da “questa cosa dei libri”, faticavo a trovare coetanei che soffrissero della mia malattia. E la giustificazione, uguale per tutti, era che i libri scolastici bastavano ed avanzavano per far rifiutare i libri in quanto tali. Una desolazione. Anch’io detestavo con tutta l’anima i manuali, non ciò di cui parlavano. C’era sempre un testo più approfondito, più stimolante, meno convenzionale e meno “scolastico” a cui attingere. Posso affermare di essermi salvato perché a casa mia i libri si leggevano. Ingenuo com’ero, ritenevo normale parlare a lezione delle mie letture, anche se non rientravano nell’ottusità dei maledetti programmi ministeriali e, per di più, infastidivano gli insegnanti. Ne ricordo uno, un sacerdote, che trasecolava se mi permettevo di citare Pasolini, colpevole dei peggiori crimini: “Era ateo, comunista e omosessuale!”, piagnucolava disgustato, alzando gli occhi al cielo. Gramsci era soltanto ateo e comunista, ma non andava bene lo stesso. Però a casa mia i Quaderni dal carcere, in una severa edizione Einaudi, venivano letti da tutta la famiglia. E senza chiedere il permesso ai preti.